L’Italia in guerra

L’Italia rimane neutrale, ma…

Allo scoppio del conflitto, l’Italia si trovava associata alla Germania e all’Austria nella Triplice Alleanza. Tuttavia il governo, presieduto dal conservatore Antonio Salandra, proclamò la neutralità. Lo poteva fare perché la Triplice Alleanza aveva uno scopo difensivo: in questo caso l’aggressore era stato l’Impero austro-ungarico, quindi l’Italia non era tenuta a intervenire al suo fianco. Il governo, in realtà, stava preparando il passaggio all’alleanza opposta. Molti politici, e una parte dell’opinione pubblica, cominciarono a chiedere di intervenire in guerra contro l’Austria per conquistare le province di Trento e di Trieste, completando così lo stato italiano, fondato nel 1861. Era questa la posizione degli irredentisti.

… c’è chi vuole entrare in guerra

Non tutti coloro che volevano l’ingresso in guerra (chiamati interventisti) erano mossi dagli stessi ideali o interessi. Oltre agli irredentisti, che volevano portare a conclusione l’opera del Risorgimento, vi erano i nazionalisti, i quali esaltavano la guerra come occasione per una politica di grande potenza. Vi erano poi gruppi del mondo industriale, che appoggiavano l’intervento per un calcolo di interesse economico: le loro fabbriche avrebbero prodotto armi, divise, equipaggiamento militare per lo stato, realizzando ricchi profitti. Erano invece neutralisti (cioè contrari alla guerra) i socialisti, i cattolici e i liberali, che condividevano le idee di Giolitti. Soprattutto era neutralista la grande maggioranza della popolazione italiana, che temeva le distruzioni e le sofferenze che la guerra inevitabilmente avrebbe portato. Gli interventisti organizzarono grandi manifestazioni per fare pressione sul governo. Il culmine fu raggiunto con le proteste del maggio 1915 (le «radiose giornate di maggio», come le chiamarono gli interventisti), di cui furono protagonisti studenti universitari e intellettuali.

L’Italia (la donna al centro, vestita con il tricolore) contesa dai due schieramenti in guerra: l’Intesa (a destra) e Austria e Germania (a sinistra). Vignetta dell’epoca.

Il patto di Londra e l’intervento italiano

In gran segreto, senza informare né il Parlamento né il paese, il ministro degli esteri Sidney Sonnino firmò a Londra un accordo con le potenze dell’Intesa (aprile 1915). Esso garantiva l’intervento dell’Italia al loro fianco; in caso di vittoria, l’Italia avrebbe ottenuto Trento, Trieste, l’Istria, la parte costiera della Dalmazia e alcune colonie in Africa. Oltre a Sonnino, del patto di Londra erano al corrente solo il primo ministro Antonio Salandra e il re Vittorio Emanuele III. L’immediata conseguenza del patto di Londra fu la dichiarazione di guerra all’Austria, del 24 maggio 1915. Il Parlamento approvò l’intervento e subito iniziarono le operazioni militari. Il comando supremo dell’esercito fu affidato al generale Luigi Cadorna e le truppe italiane attraversarono il confine sul fiume Piave, poi avanzarono in direzione del Carso e di Trieste. Tuttavia furono ben presto bloccate dagli austriaci sulla linea del fiume Isonzo e a ridosso delle Dolomiti.

LA «BELLA MORTE»

Già nel corso della guerra coloniale in Libia, nel 1911-1912, in Italia si erano diffusi sentimenti nazionalisti e militaristi. Si era cominciato a parlare di guerra «bella», che avrebbe rafforzato gli animi degli italiani e avrebbe fatto diventare l’Italia una grande potenza. Persino si era parlato di «bella morte», capace di dimostrare le energie di un popolo in cerca di un suo spazio in Africa. I nazionalisti riproposero queste ambizioni imperialiste per sostenere la necessità di un intervento italiano nella Prima guerra mondiale, organizzando vivaci manifestazioni di piazza. Malgrado fossero una minoranza nel paese, riuscirono così a esercitare una forte pressione sul governo. Tra i più accesi sostenitori dell’intervento ci furono scrittori e pittori che appartenevano al movimento chiamato «Futurismo». Essi esaltarono la guerra come manifestazione di energia e di modernità. Qui vedi un dipinto futurista (Cannone in azione di Gino Severini, 1915), nel quale la guerra non è rappresentata nella sua drammatica realtà. È piuttosto un gioco di colori e di forme, dove gli uomini sembrano dei manichini.

Un anno di inutili massacri

Per raggiungere la linea del fiume Isonzo, furono sferrate dagli italiani dieci offensive, a partire dal giugno 1915. Nella sesta battaglia, scatenata il 4 agosto 1916, fu conquistata Gorizia e raggiunta la sponda sinistra dell’Isonzo. Il passaggio del fiume non si rivelò risolutivo, perché le truppe si trovarono bloccate da una nuova e forte linea difensiva. Nell’inverno del 1916 i combattimenti più intensi si verificarono sul fronte occidentale (Francia e Gran Bretagna contro Germania). Qui i tedeschi attaccarono la città francese di Verdun (in Lorena) con un grande dispiegamento di uomini e mezzi. I francesi riuscirono a resistere, aiutati dagli alleati inglesi che combatterono sulla Somme, un fiume della Francia settentrionale. Nessuno conseguì risultati decisivi: la carneficina (1 600 000 morti) risultò del tutto inutile. Sul fronte orientale l’anno 1916 fu favorevole ai russi, che lanciarono un’offensiva contro i tedeschi. Il punto debole della Germania consisteva nella difficoltà di rifornirsi di carburante, a causa del blocco navale attuato dagli inglesi. Inutilmente la flotta tedesca tentò di forzare il blocco in una battaglia navale presso la penisola dello Jutland, tra Danimarca e Germania. Il problema fu risolto in parte con l’entrata in guerra della Romania al fianco degli Imperi centrali, perché quel paese era produttore di petrolio, che vendeva alla Germania. Sul fronte meridionale, quello dove combattevano Italia e Austria, i due eserciti lanciarono nuove offensive, con molte perdite umane ma senza nessun risultato pratico. Intanto, con il prolungarsi della guerra, le condizioni della popolazione civile diventavano sempre più drammatiche.

IL FRONTE INTERNO

La guerra fu combattuta non solo dai soldati al fronte ma anche dalla popolazione civile, chiamata a sorreggere un impegno militare così imponente. Gli stati chiesero prestiti in denaro ai loro cittadini per pagare le forniture militari. Le industrie lavorarono a pieno ritmo per produrre armi, divise, mezzi di trasporto. Le donne furono chiamate a svolgere lavori che prima erano quasi esclusivamente riservati agli uomini. Molte di loro andarono a lavorare nelle fabbriche, al posto degli operai mandati al fronte come soldati. Le campagne si spopolarono: circa il 90% dei soldati italiani che morirono in guerra erano infatti contadini. Anche nelle campagne il lavoro delle donne e dei bambini sostituì quello dei maschi adulti.

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