Governare l’Italia

La questione romana

Nel biennio 1859-1860 gran parte della penisola italiana era stata unificata in un solo stato. Tuttavia restavano due territori italiani ancora esclusi dal Regno d’Italia: il Veneto e il Lazio. Il primo apparteneva all’Austria, il secondo allo Stato della Chiesa. Il pontefice Pio IX non voleva rinunciare a governare come un sovrano su Roma e il suo territorio. Il papa era protetto da Napoleone III, che teneva una guarnigione di soldati a Roma. In Francia, infatti, vi erano molti cattolici: sostenendo i diritti del papa, Napoleone III guadagnava il loro consenso e la loro fiducia. Anche in Italia molti cattolici erano contrari a un intervento armato dell’Italia contro lo stato del papa. Il governo italiano cercava di risolvere la «questione romana» pacificamente, tramite un accordo. Invece mazziniani e garibaldini premevano per una soluzione di forza, cioè per l’occupazione militare dello Stato pontificio. Con questo scopo Garibaldi partì dalla Calabria con un gruppo di volontari e puntò su Roma. Per evitare che l’esercito francese si schierasse a favore del papa, il governo italiano inviò il proprio esercito a bloccare Garibaldi e i suoi uomini. I garibaldini furono fermati dopo un breve scontro sull’Aspromonte, in Calabria (1862). Per superare l’ostacolo francese, nel 1864 il governo stipulò un accordo: la Francia si impegnava a ritirare entro due anni le truppe da Roma, in cambio dell’impegno italiano a non invadere lo Stato pontificio. La capitale del regno fu trasferita da Torino a Firenze (1865): con questo gesto, il governo italiano voleva far capire a Napoleone III di aver rinunciato al progetto di fare di Roma la capitale d’Italia.

La conquista di Venezia e di Roma

Negli anni successivi si verificarono però due situazioni internazionali favorevoli al completamento dell’unità d’Italia. Nel 1866 scoppiò una guerra tra Austria e Prussia, e l’Italia si schierò a fianco di quest’ultima (Terza guerra di indipendenza). L’esercito italiano fu sconfitto sia in terra (a Custoza) sia in mare (nella battaglia navale di Lissa). Tuttavia, grazie ai successi dell’alleato prussiano, la guerra fu vinta e l’Austria fu costretta a cedere il Veneto all’Italia. La soluzione della questione romana avvenne nel 1870. Anche in questo caso l’Italia fu favorita dalla vittoria della Prussia nella guerra contro la Francia, scoppiata in quell’anno. Lo Stato pontificio non aveva più la protezione dei soldati francesi, che erano stati ritirati in base agli accordi. Napoleone III non poteva mandarne altri, perché impegnato nella guerra contro la Prussia. Così l’esercito italiano scese nel Lazio e, il 20 settembre 1870, un reggimento di bersaglieri entrò in Roma. Roma fu proclamata capitale del Regno d’Italia nel 1871: l’obiettivo dell’unificazione nazionale era raggiunto.

Stato e Chiesa

Dopo la presa di Roma, i rapporti tra Stato e Chiesa divennero difficili. Il governo emanò la legge delle guarentigie (parola oggi in disuso che significa «garanzie »). Al pontefice era riconosciuta la condizione di sovrano straniero: poteva tenere guardie armate, ricevere rappresentanti di altri stati e comunicare con i cattolici di tutto il mondo. Inoltre gli fu assegnato un piccolo territorio costituito dal Palazzo del Vaticano, dal Laterano e dalla villa di Castel Gandolfo (il territorio dell’attuale Stato del Vaticano) e una rendita annuale per far fronte alle spese. Il papa, però, rispose con un netto rifiuto: non riconobbe validità alla legge e impose l’obbligo per i cattolici di non partecipare alle elezioni politiche italiane.

Il potere a pochi

Nel 1871, dunque, l’Italia era unita. Tuttavia bisogna ricordare che solo una minoranza della popolazione aveva partecipato attivamente alla formazione dello stato italiano. Nelle campagne la gran parte dei contadini era rimasta estranea, se non ostile. Nelle città operai e artigiani erano esclusi dalla politica: non leggevano, non partecipavano alle discussioni, non votavano. Prima dell’unità la politica era fatta da pochi e, dopo il 1861, il potere rimase nelle mani di quei pochi. Infatti la legge elettorale concesse il diritto di voto soltanto ai cittadini più ricchi: solo il 2% degli italiani (meno di mezzo milione), scelti sulla base del reddito, poteva votare.

LEGGERE le FONTI

La presa di Roma, tra l’indifferenza del popolo
In questo brano vi è il rapporto scritto dal console americano a Roma dopo gli avvenimenti che accompagnarono la conquista della città da parte delle truppe del Regno d’Italia il 20 settembre 1870.
"Il 20 settembre 1870, alle cinque del mattino, l’attacco italiano iniziò con una raffica di fucilate e un forte cannoneggiamento di circa quaranta colpi al minuto, che si estendeva da Porta del Popolo a Porta San Giovanni. Le vecchie mura non opposero in genere alcuna apprezzabile resistenza al fuoco dell’artiglieria pesante. Una grossa breccia fu fatta vicino alla Porta Pia, e i soldati italiani in numero strabocchevole passarono attraverso di essa, e riempirono l’intera città. Credo che nessun privato cittadino abbia fatto il minimo sforzo o la minima dimostrazione a favore del governo papale. Durante le operazioni militari le strade erano piene di popolo tranquillo e ordinato, in attesa."
(da N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea, 1875)

Dopo avere letto il documento, rispondi alle domande.
1. In che modo i soldati italiani entrarono in Roma?
2. Quale fu l’atteggiamento dei cittadini romani?

I bersaglieri entrano in Roma attraverso la breccia di Porta Pia (dipinto di Carlo Ademollo, XIX secolo).

Il re conta più del Parlamento

Dal 1861 al 1876 al governo furono nominati uomini della cosiddetta «Destra storica», un gruppo di moderati che si consideravano gli eredi politici di Cavour, morto nel 1861. Tra le due principali istituzioni nazionali, il Parlamento e la monarchia, fu quest’ultima ad avere maggior peso. Spettavano infatti al re la direzione della politica estera e il comando dell’esercito, la nomina del governo e delle massime cariche amministrative (prefetti, giudici, funzionari statali). Inoltre il re poteva condizionare l’attività del Parlamento per il semplice fatto che una delle Camere, cioè il Senato, era composto da persone nominate dal re stesso.

Il governo della Destra

In campo economico, l’obiettivo principale della Destra fu quello di pareggiare il bilancio dello stato, ossia di pagare i debiti e trovare l’equilibrio tra entrate (i soldi che lo stato incassa con le tasse e con altri strumenti) e uscite (i soldi che lo stato spende per costruire opere pubbliche, far funzionare le scuole, equipaggiare l’esercito, ecc.). Un ministro delle Finanze, Quintino Sella, vi riuscì con una politica basata sul risparmio e sull’aumento delle tasse. Nel 1868 fu introdotta la tassa sul macinato. Era una tassa sulla macinazione dei cereali, da riscuotere nel momento in cui il grano e gli altri cereali venivano portati ai mulini per farne farina. Era calcolata mediante un contatore che, applicato alla macina dei mulini, registrava la quantità di cereali macinata. I mugnai riscuotevano la tassa, che poi versavano allo stato. La tassa sul macinato determinò un aumento del prezzo del pane, che rese ancora più difficile la vita della popolazione più povera. Perciò ci furono proteste anche violente, con episodi di rivolta contadina.

Il governo della Sinistra

Nelle elezioni del 1876 vinsero i candidati che appartenevano alla cosiddetta «Sinistra storica». Nonostante si chiamassero «Sinistra», non avevano nulla a che fare con il socialismo o con i partiti della classe operaia: si trattava semplicemente di uno schieramento meno conservatore della Destra, perché sosteneva la necessità di alcune riforme e di un intervento dello stato a difesa dei ceti più deboli. I governi della Sinistra, guidati da Agostino Depretis, approvarono una riforma elettorale (1882) che fece salire da 600 000 a due milioni il numero degli italiani aventi diritto al voto. Era ammesso al voto chi aveva superato il corso obbligatorio della scuola, cioè la seconda elementare, e disponeva di una certa ricchezza. Grazie a questa riforma, la piccola borghesia, gli operai, i contadini più ricchi e i piccoli proprietari terrieri ottennero per la prima volta il diritto di voto. La Sinistra portò l’obbligo scolastico a cinque anni (prima era solo di due anni), con la legge scritta dal ministro Michele Coppino del 1877. Era ancora poco, rispetto al diffuso analfabetismo del paese, ma era pur sempre la prima legge italiana che riconosceva l’istruzione come compito fondamentale dello stato.

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